Amava quel luogo. Forse più per come lo aveva conosciuto da bambina, che per ciò che era adesso. Ne amava il luccichio azzurro del mare che occhieggiava fra gli sparsi marmi pallidi. O le filiformi chiome dei cipressi. Aveva giocato con la loro ombra, da bambina, mentre gli adulti armeggiavano fra fiori, vasi e preghiere. Era stato sempre un giorno di festa, quando andava lì con i suoi genitori – spesso la domenica – a far visita ai nonni. Si partiva tutti insieme, con gli zii e i cugini, e i viali alberati sembravano grandiosi labirinti d’avventura.

Era diverso, adesso, essere lì. Ci tornava dopo un lungo esilio, un esilio dal dolore e dalla consapevolezza.

Se respirava a fondo, lo sentiva nei polmoni e nello stomaco il profumo del mare. E i richiami dei gabbiani le dicevano che aveva fatto bene a venire, finalmente, che erano stati vigili e amorevoli su quella lastra bianca, su quel nome ancora scintillante al sole, sulla foto sorridente. Ma che era giusto che adesso fosse lei lì.

Il cuore si era acquartierato nella sua gola già da qualche minuto e il suo respiro pareva sbuffi di balena. Poteva dare la colpa alla salita, al caldo e a… A cosa, in verità? Al dolore, invece, che aveva iniziato a sussurrarle sospiri già quando era scesa dalla moto. Poi i sospiri avevano plasmato pensieri, mentre con cura sceglieva i fiori da comprare. E i pensieri premevano per diventare parole, ora che era lì in piedi, ferma, lo sguardo cristallizzato di lacrime e assenza.

Quella foto fra le altre, insieme alle immagini dei nonni: che cosa ci faceva lì quel viso? Come poteva essere accaduto? Quando? Non lo aveva solo sognato?

No…

Chiuse gli occhi per domare cuore e respiro, perché non voleva essere patetica, non voleva cedere. Non davanti quegli occhi che per tutta la vita l’avevano scrutata di amore non detto e di giudizio spietato. Ma lui, in realtà, non poteva più guardarla.

Poggiò i fiori sul marmo che il sole aveva ammantato di una patina giallina. Doveva essere passata da lì sua madre, da poco, con la sua siciliana mania del pulire a specchio la tomba di famiglia. Ritirò bruscamente le mani, per non vederne il tremore. Imitò i gesti di bambina: il segno della croce, il bacio alla foto attraverso il vetro. Era stato un rituale buffo e misterioso per lei e i suoi cugini, da bimba, ora era una mimica da difesa, attimi rubati al tempo per allontanare ancora un po’ la consapevolezza.

Perché ci arrivarono gli occhi, infine, su quel nome, quella data, quella frase:

Massimo Garotta, 9/2/1939 – 12/6/2020. Il nostro centro, il nostro pilastro.

E il cuore le crollò.

Sedette sulla tomba, senza forze; le mani a carezzare frenetiche le lettere del nome, ogni singola lettera; come se toccandole, scaldandole, avrebbe potuto riportare in vita un corpo, un cuore, quella mente tanto simile alla sua da crearne battaglie.

«Papà…» sussurrò.

Il singhiozzo le chiuse la gola, ma non si sarebbe arresa. Voleva dirglielo, doveva parlare con lui, o la sua vita non avrebbe saputo riprendere una direzione.

«Papà… sono qui… Siamo qui, tu ed io… Tu lo sai, il nostro discorso è rimasto… tu lo hai interrotto, quel pomeriggio all’improvviso, spegnendoti così… lo hai fatto davanti ai miei occhi, papà… E io non l’ho capito, papà, ho dato ascolto al mio nervosismo… ai miei pregiudizi… Papà…»

Le sue mani rallentarono, la carezza divenne intima.

«Sono qui, papà, l’ho tenuto dentro di me, sai? Tutti a dire: l’ha presa bene, è sempre la più forte lei… è sempre razionale… Loro non lo sanno, loro non lo vogliono vedere che io sto male da quel giorno, papà, che ho una mano che mi stritola le visceri ogni volta che qualcuno parla di te. Papà… ti prego, papà, perdonami se non ti ho saputo proteggere, se sono stata insofferente, se… se quel pomeriggio ho creduto che fosse la tua ennesima esagerazione nevrotica e invece non ho capito subito che ci stavi lasciando, che ti stavi spegnendo… Perdonami, papà, liberami dal rimorso… Ti prego, papà…»

Il pianto le rubò il fiato per ogni altra parola, per ogni altro pensiero.

Davvero aveva creduto di trovarlo a quel modo il sollievo che da mesi cercava e si negava? Davvero aveva creduto – come diceva la nonna – che fare visita ai morti mette in pace il cuore?

Non era una festa adesso, non era l’affascinante esplorazione nel labirinto di marmi e cipressi. Era l’assenza, era il lutto, era il dolore. Intenso al punto da frammentare ogni cellula dell’anima e irrorarla di sgomento.

Che idiota a credere di trovare la pace!

Si alzò di scatto, delusa, afferrò i fiori, li divise, ne riempì i vasi. Fece ciò che aveva visto tante volte fare alle zie e a sua madre, a tutti coloro che mai erano arrivati al cospetto di quelle foto con un infantile spirito d’avventura. Erano gesti per arginare la sofferenza, questo erano. E adesso lo scopriva.

Scelse la rosa più carnosa e aprì la vetrinetta sopra la lastra di marmo. Ne andava messa una nel vaso interno, come sua madre le aveva insegnato. La sua mano si fermò, però, coperta da un’ombra improvvisa che sembrò poterla catturare in una stretta invisibile. Il cuore le scivolò nello stomaco. Il suo respiro si sospese, mentre l’ala di gabbiano la sfiorava aprendosi. Un tocco deciso, tanto da non sembrare casuale. Il gabbiano reale stava in bilico sull’anta aperta della vetrinetta. I suoi occhi rossi la fissarono, dritti all’anima. Nessun suono, nessun movimento; solo quell’ala che ora l’abbracciava. Durò un secondo, forse due, o magari l’immenso. Tanto quanto era durato il suo esilio dal dolore.

«Papà?»

Ecco, era ancora più stupida, sì, ancora più infantile a credere che davvero i gabbiani custodissero l’anima di chi ci ha lasciato, come Mattia le aveva insegnato.

Scosse il capo, sorda a quella voce razionale che voleva indurirla ancora.

«Sei tu, papà? Allora mi perdoni… sì?»

Il gabbiano ripiegò delicatamente l’ala e abbassò il capo, così che il becco le sfiorò una guancia. Rapido, poi, seguì l’invito di una flebile corrente e riguadagnò il ciano del cielo di piena estate.

Lo seguì con lo sguardo, incantata, poi d’istinto portò gli occhi sulla foto nella vetrinetta, vivida di colori. L’aveva scelta lei stessa, insieme a sua madre, impiegandoci una sera pregna di malinconia. Perché non aveva ricordato quel sorriso accennato, sornione ma vero? Quello che seguiva alle liti, alle parole dure – troppo dure per non ferire – ai tanti stai zitto in risposta, che poi si scioglievano in una ricerca silenziosa di sguardi, di nuovo complici, per una scusa stupida qualsiasi per tornare a parlare, a pronunciare i nomignoli: Cicci, Paponzo.

«Mi hai perdonato sempre, papà… come io ti ho sempre perdonato… ogni volta, papà mio, ogni volta, vero?»

E allora perché non avrebbe dovuto farlo ancora?

Perché non dovresti, papà? Devi farlo, devo farlo, perché altrimenti davvero non troverò la mia nuova direzione, quella senza di te.

E allora sì che mai me lo perdoneresti.

 

©Patrizia Grotta e Ljus av Balarm


NB tutto il racconto, come ognuno degli altri messi disposizione gratuitamente dall'autrice, è tutelato dal diritto d'autore. Se ne vieta dunque qualsiasi utilizzazione, totale o parziale, ivi inclusa la memorizzazione, riproduzione, rielaborazione, distribuzione, pubblicazione, copia, trasmissione, vendita. Gli eventuali trasgressori saranno perseguiti secondo quanto stabilito con la Legge 633 del 22 aprile 1941 e successive modifiche.