Dell’inverno mi ammalia il suo straordinario paradosso: la stagione del freddo e del grigio è anche quella in cui ricomincia la lenta riconquista della luce sul mondo, minuto dopo minuto dal solstizio d’inverno a quello d’estate. Quale metafora sarebbe più indicata per la mia vita? Sempre, proprio nelle epoche in cui ho attraversato sofferenze o grandi perdite, ho intravisto le prime luci di qualcosa di bello che proprio in quel dolore si sarebbe lentamente fatto strada per riportarmi alla vita!

Su questo presupposto provato e riprovato, si fonda la mia fiducia ottimista nelle evoluzioni esistenziali. Con quel principio ho superato catastrofi di diverso tipo, che – a detta di tanta gente a me vicina – avrebbero abbattuto la maggior parte delle persone che vi si fossero trovate in mezzo.

Era quasi inverno anche quell’anno e io camminavo per le strade della città accoccolata nella notte. Stretto nel mio cappotto e con il mento affondato nella pashmina, rientravo a casa dopo una tranquilla serata di giocate prenatalizie con i colleghi di lavoro. Tranquillità: proprio su quella parola stavo riflettendo mentre i miei passi risuonavano attutiti sulla spessa coltre di foglie rosse che il vento aveva strappato agli alberi. Da molto tempo vivevo, infatti, un’epoca di serenità economica e relazionale che – mi rendevo conto in quel momento – si stava protraendo per un tempo insolitamente lungo, tanto da farmi pensare che le stagioni degli alti e dei bassi si fossero ormai esaurite. Chiunque si sarebbe rallegrato in quella considerazione; io, invece, avvertii nitidamente un moto di dispiacere, al limite della malinconia. Pazzia? Provare nostalgia verso le difficoltà trascorse? Uhm, forse!

O forse un refolo di quella mia indole avventurosa ereditata da mio padre, quel solletico che iniziava lieve per poi esplodere irresistibile e travolgente. A differenza di me, però, mio padre non aveva mai resistito neanche alle prime avvisaglie di quella spinta e non aveva atteso di trovarsi travolto prima di mollare me, mia madre e mio fratello senza un soldo, senza una casa, senza una spiegazione e senza mai più farsi vivo (la prima catastrofe della mia vita!).

Non che quella notte di colpo venisse anche a me voglia di mollare il mio lavoro, la mia ragazza e la mia città per correre verso lidi caldi e stimolanti, però la mia anima fu in effetti solleticata quasi da un desiderio, il desiderio che accadesse qualcosa che mi portasse un po’ di adrenalina, di necessità di combattere, di misurarmi ancora una volta con le mie risorse e contro le mie debolezze.

Mi trastullavo in quell’ozioso desiderio mentre ero ora a pochi metri da casa mia, un appartamento grazioso e funzionale in un palazzo moderno di una zona bene della città. Sorrisi divertito alla vista dei balconi di casa, dicendomi quanto folle fosse il solo pensiero di perdere quella sicurezza. E soprattutto di ciò che vi era dentro, la mia bella compagna che mi aspettava sveglia per darmi il bentornato.

Stavo per infilare la chiave nella serratura, quando la mia vista periferica intercettò una forma scura nel buio della notte. Mi volsi d’istinto, più curioso che allarmato, convinto che si trattasse di un cane. Alla fioca luce del lampione pubblico, definii via via delle forme: spalle, braccia, gambe: un grosso fagotto umano ripiegato su sé stesso e disteso su un fianco, apparentemente esanime. Pensai prima a un barbone addormentato; anche se in quella zona non se n’era mai visto uno, la lunga crisi economica connessa alla pandemia aveva purtroppo moltiplicato l’apparizione di barboni in quartieri che prime ne erano stati risparmiati. Poi, però, pensai che potesse essere qualcuno che si fosse sentito male e smisi ogni indugio per raggiungerlo.

A un passo dalla forma, fui investito da un odore di stantio, come di qualcosa che fosse stato per secoli ficcato dentro una catacomba. Sì, lo so, il paragone è un poco troppo ad effetto, ma fu la prima sensazione che ebbi e, siccome da ragazzino sono stato in gita scolastica alle catacombe, sapevo bene che odore facessero. Nondimeno, compii l’ultimo passo e gentile chiesi:

«Tutto bene, signore? Si sente male?».

Non ricevetti risposta, ma non mi arresi e ripetei la domanda. La mia vista si abituava al gradiente di luminosità e scopriva maggiori dettagli: gli abiti lisi e leggeri, le scarpe rotte, i capelli ingialliti che fuoriuscivano a ciocche sfilacciate da un lurido cappellino di cotone. Sì, era valida la mia prima ipotesi: un barbone aveva scelto quell’inusuale angolo di città per trascorrere la sua ennesima notte all’addiaccio. Una folata di vento mi fece rabbrividire attraverso il cappotto e subito mi chiesi se persone come lui diventassero impermeabili al freddo, tanto da poter sopravvivere in condizioni in cui altri esseri umani non avrebbero resistito a lungo.

«Che vuoi?».

Pensai dapprima di aver allucinato quella sorta di rantolo animalesco, ma poi riecheggiò nella mia mente come parole di senso compiuto.

«Sapere se ha bisogno di qualcosa», risposi allora – chinandomi leggermente verso l’uomo.

L’odore – la puzza, a dirla tutta – poté persino sbattermi in faccia, aggredendo i miei sensi, ma riuscii a non tirarmi indietro. Perdere tutto, lavoro, casa, famiglia non significava essere defraudato della dignità umana; e io non volevo che la persona davanti a sé si sentisse umiliata dal mio ribrezzo. L’uomo si tirò faticosamente a sedere e solo allora mi avvidi del cane che stava accucciato contro il suo petto. I suoi occhi sbiaditi dalle intemperie di vita cercarono i miei, inizialmente con una luce caustica, poi con una sorta di analitica osservazione. Il suo viso scarno era segnato da una barba grigia e sporca, oltre che da una cicatrice su una tempia a forma di virgola.

«Ah sì? E, se ne avessi, tu me lo daresti?»

Restai spiazzato da quelle parole e soprattutto dal loro tono provocatorio. Non che mi fossi aspettato manifestazioni di gratitudine adorante per la mia domanda, ma neanche quel sarcasmo tagliente! Lo avevo forse offeso, mortificato addirittura, con il mio interessamento?

«Dipende…», risposi, però, quasi nello stesso tono.

«E da cosa?»

«Da quello che mi chiederebbe! Se mi chiedesse di diventare milionario… ok, vabbè, se lo può scordare, perché onestamente userei questo mio potere per me. Se invece mi chiedesse un pasto caldo e una coperta nuova, allora a disposizione…>>

«Un lavoro me lo puoi dare?»

«Se lei avesse capacità e serietà di impegno, potrei valutare la possibilità, sì…»

«Ah sì? E una casa me la puoi dare?»

«Certo che no, e che sono: un palazzinaro? Ma se lei si mettesse di impegno a lavorare, la casa poi se la potrebbe pagare da solo.»

«Uh… E una famiglia, quella me la puoi dare? Una famiglia con cui trascorrere Natale?»

A quel punto, mi sentii attraversare da una pena profonda e sincera.

«No, mi dispiace… quella no…»

«Tu ce l’hai una famiglia?»

«Sì, ce l’ho… mia madre, mio fratello e la mia compagna… ah, è anche un cane… Pippolo…»

L’uomo serrò le labbra e profonde rughe segnarono la sua fronte sporca.

«Pippolo?»

«Eh sì, lo so… è il nome più assurdo del mondo, me ne rendo conto da solo… ma è tutta una vita che chiamo Pippolo tutti i cani che ho. Attualmente sono a Pippolo IV!»

L’ombra di un sorriso gentile attraverso le labbra screpolate dell’uomo.

«Non è un nome strano… è buffo, ma strano no»

Sorrisi anche io allora, senza quasi accorgermene sedendomi sul bordo del marciapiede. Gli chiesi di lui, di cosa fosse la sua vita in quell’epoca e in quella che le aveva precedute. Dapprima mi fissò esitante – imbarazzato, in realtà – ma, quando ritirai scusandomi la domanda, lui mi mise a tacere con un cenno di mano e si raccontò. Poche parole di una giovinezza spesa a credere di potere inseguire il sogno di una libertà assoluta da vincoli di ogni tipo e poi di un’età adulta trascorsa a raccogliere cocci di disastro, nella consapevolezza di aver sprecato ogni istante. Fino a ritrovarsi reietto e misero straccio da niente di marciapiede in marciapiede. Era tornato a Palermo da sette mesi, dopo un viaggio da calvario in cui sentiva di avere perso anche le ultime risorse di mente e corpo.

Quando tacque, io mi trovai totalmente coinvolto dalle sue parole, con la forte sensazione che a quel punto davvero avrei dovuto fare qualcosa per lui. Ascoltando le sue parole, la sua proprietà di linguaggio e le sue straordinarie esperienze di vita, avevo capito che – ripulito e ritemprato – poteva davvero avere le possibilità di un nuovo inizio, magari proprio nella mia azienda informatica. Glielo dissi e lui poggiò una mano ruvida su una mia, con un sorriso sfigurato dall’amarezza.

«Lo sai che fra poche ore è inverno?»

Quella domanda mi turbò, tanto da poterle rispondere solo con un breve cenno del capo. Anche l’uomo annuì, con una pesantezza tangibile. Vidi la lacrima che lasciava i suoi occhi, mentre le sue mani si serravano a pugno.

«E tu lo sai qual è il paradosso dell’inverno?» aggiunse roco.

Il cuore mi schizzò in gola e le gambe mi tremarono, sebbene io fossi seduto.

Che cavolo stava succedendo?!

La sensazione nella mia mente mi terrorizzò, anche se subito la bollai come delirante. Non potei impedirmi di scattare in piedi, però, come in fuga. Fissai lui con una brutalità che io stesso sentii e l’uomo si strinse nelle spalle, abbassando gli occhi. Gli volsi le spalle, dandomi del pazzo. Augurai a denti stretti la buonanotte e gli dissi che salivo a casa per non far preoccupare la mia compagna, ma che se domani lui fosse stato ancora lì gli avrei sceso colazione calda e una coperta. Non ascoltai la sua risposta a corsi a rifugiarmi a passo svelto nell’androne di casa.

Avevo il cuore in tachicardia e un dolore pungente al petto. Che diamine, mi stavo fumando il cervello, che razza di suggestioni? Pretendevo forse di essere l’unico ad avere in mente il paradosso dell’inverno? Ma… da dove mi era venuta quella riflessione? Ce l’avevo dentro da sempre, questo lo sapevo, ma era originata in me o da qualcun altro?

Cacciai dalla mia mente a forza ogni pensiero e salii a piedi fino al quarto piano, entrando in casa come dentro un rifugio antiaereo. Susanna, la mia compagna, mi venne incontro sorridente, ma il suo viso si fece preoccupato vedendomi. Negai la sua percezione e le dissi che ero stanco e che avevo voglia di trovarmi a letto con lei fra le mie braccia.

Non chiusi occhio quella notte, inquieto. Il mio impulso era di chiamare mia madre e tormentarla di domande, ma quanto crudele avrei dovuto essere coinvolgendo nel mio delirio lei, che aveva sofferto l’inferno per mesi e mesi quell’inverno di 27 anni prima?

Lasciai il letto che era appena l’alba e scalzo raggiunsi la finestra del salotto. La aprii piano e poco e sbirciai fuori, attento come se temessi di essere visto. Non seppi cosa provare quando mi accorsi che l’uomo non c’era più: delusione, sollievo, cos’altro? Ma c’era poi davvero stato qualcuno lì o era stato l’effetto di un bicchiere d’amaro in più?

Mi gingillai in quegli interrogativi per un quarto d’ora prima di trovarmi risoluto: mi rivestii e rapido uscii. Di nuovo presi le scale, come se quel lasso di tempo potesse chiarirmi le idee, attraversai a passi svelti l’androne ed eruppi sul marciapiede deserto e perlescente nella prima aurora invernale. Raggiunsi il punto in cui l’uomo era stato – se c’era stato davvero! – e subito vidi un fazzoletto di cotone appallottolato. Mi inginocchiai e non esitai a raccoglierlo e svolgerlo. Come ombra impalpabile, la foto piegata e sbiadita mi cadde in grembo e mi colpì al cuore. Riconobbi me nel viso di bambino di appena cinque/sei anni e, con qualche difficoltà, riconobbi i lineamenti di mio padre in quelli dell’uomo che mi abbracciava. Mia madre aveva distrutto tutte le sue fotografie, dopo che lui ci aveva abbandonati, e strappato via le parti in cui era ritratto con noi. Eppure sì, una volta riesumato dai meandri della mia memoria, ne ritrovai immediatamente la familiarità, quel sorriso spavaldo e largo, quegli occhi inquieti, persino la cicatrice a forma di virgola sulla tempia. Girai la foto, seguendo un’intuizione, e vidi la scritta tremula e vergata con una penna incerta:

Sei diventato come io speravo che tu fossi. Ho letto nei tuoi occhi quella smania che avevo io, ma non fare minchiate e non darle ascolto. Hai una vita bella, non oscurarla mai la luce che progredisce nell’inverno. Addio.

Tante volte avevo fantasticato, in quei 27 anni, sull’improbabile momento in cui io avessi riavuto davanti mio padre, ma mai lo avevo immaginato in quel modo né avevo previsto che avrei provato quello che sentivo in quel momento: niente rancore, niente dolore, niente gioia, solo sollievo.

E la certezza che no, io non sarei mai stato preso da quel solletico fino all’eccesso che aveva indotto lui a mollarci in inferno. Perché a me il paradosso dell’inverno non avrebbe mai portato l’arroganza di essere invincibile; la gratitudine per ciò che avevo, quella sì.

 

Il Paradosso dell’inverno, un racconto di Patrizia Grotta ©Ljus av Balarm 2020


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