La vedo. Giurerei che non ci fosse stata prima, come se l’isola fosse apparsa dal nulla dei miei sensi assuefatti. È lì: piccolo fagiolo lussureggiante di mangrovie. Il celeste del mare che l’avvolge è fosforescente, come se dovesse attrarmi; campo magnetico per i miei battiti.

E mi attira, sì, mi attira invitante, violenta; sirena ingannatrice o oasi salvatrice?

Le mie mani serrano la cloche del biplano; il mio cuore pompa sangue inquieto.

Alle mie spalle le casse cigolano, come se il loro contenuto potesse percepire la mia tentazione e provassero a dissuadermi:

«Non farlo, non sacrificarti, davvero rinunceresti alla tua vita pur di non portarci a destinazione?».

Adesso lo scorgo: l’isolotto è a un chilometro da me; puntino luminoso sul radar. Perché ho saputo percepirlo prima ancora della strumentazione di bordo?

Lanciò un’occhiata nervosa indietro. Le casse sono salde nell’immobilità, legate fra loro e protette da un robusto d’acciaio. Inerti – così sembrano – innocue. Fragile, c’è scritto. E io non so se sia quella la dicitura più corretta, quella che sveli la natura insidiosa del loro contenuto. L’indole perversa degli uomini che l’hanno concepito.

Distolgo lo sguardo, invaso da quell’ondata di cinismo che ben conosco. Non è compito mio interrogarmi sulla moralità di quel carico: io sono pagato per il trasporto, null’altro. Solo il caso, quella notte, mi ha fatto udire parole sussurrate di un inganno sagacemente travestito. Qualcosa che non riguarda me, che sono un corriere e a cui una bolla di accompagnamento parla di aiuti umanitari. Non sono affari miei, come non devono essere stati affari di nessun altro in questo mondo di egoismo quella notte di quindici anni fa, quando è stata la mia casa a venir sventrata dalle bombe a grappolo; quando era la mia famiglia a bruciare di carne viva nei vapori di un gas! No, ha riguardato solo me quella notte devastante, me e gli altri sparuti sopravvissuti. Non certo chi – al posto mio – quel carico di bombe e gas chimici lo ha trasportato da un punto all’altro di un mondo crudo e senz’anima.

Piccole ombre scure saltano fra i rami delle mangrovie, riesco a vederle sin da quassù. Sono scimmie, macachi. Le scimmie ladre, le conosco bene. Mi piacciono: fanno ciò che vogliono, pensano a sé stesse, persino fra i templi sacri di Bali.

Il mare scorre; il fagiolo di terra e alberi è a cinquecento metri da me. L’ombra del mio biplano le corre incontro, eppure ho la sensazione che i secondi si siano dilatati nella mia testa e nello spazio attorno. Sospeso da un incantesimo, il tempo si riempie di ricordi. Sento voci, vedo volti sfigurati dal terrore, respiro il sangue che irrora arti strappati. Una notte, una come altre, fino all’attimo del primo boato.

Scuoto il capo, stringo la cloche fino a farmi male. Non voglio ricordare; non devo ricordare.

Il mio biplano è una placida croce nera sulla superficie del mare adamantino.

Mi attira, mi attira, mi attira a sé, quella dannata isola. Che cosa vorrebbe? Che cosa mi chiede? Da dove diavolo salta fuori, dopo quindici anni in cui ho ricucito i pezzi di carne e anima e sono diventato esule fra esuli, ombra fra ombre?

Trattengo il respiro: l’isola è a duecento metri da me.

«Non darle ascolto, è un inganno, false sirene di un falso riposo. Davvero pensi che il tuo sacrificio allieverebbe la tua pena o la pena di altri come te?»

Hanno terrore quelle casse, adesso lo capisco. Tremano per la loro missione, per il loro senso, per quel maleficio che le fa pulsare e che agognano di sprigionare!

«Non è colpa nostra, noi siamo solo strumenti che fanno ciò per cui siamo stati creati da voi».

Il cuore mi scoppia. L’isola è sotto di me. Piccolo sconosciuto atollo vergine; vergine di violenza, di odio, di esseri umani. Io non sarò mai come lui, ho smesso di esserlo a tredici anni, con le mani rosse del sangue e dei visceri di mia madre.

Ora l’isolotto è dietro di me. E loro sogghignano, le casse festeggiano la loro vittoria. Si burlano di me:

«Ti sei illuso di poter essere un eroe? E tanto chi lo avrebbe saputo? Nessuno! Stupido umano».

Quelle parole sono un dejà-entendu e iniziano a vorticarmi nel cervello. Devo riportare indietro il nastro, rivedere la scena, riascoltarla. Ombre, oscurità, focolai roventi, odore di gas e carne maciullata. Passi pesanti, uomini corpulenti e dal viso coperto dalle maschere protettive. Mio padre sta in piedi dinanzi a loro, vacilla ma resiste alle mani che violente si poggiano su di lui.

«Vi eravate davvero illusi di essere liberi? Non vi permetteremo mai di esserlo!»

Voce beffarda, cattiva; esiste per umiliare, ferire. Ma mio padre resta in piedi, li guarda, li sfida, il suo sorriso è di chi vince su tutto.

«Lo siamo e lo saremo, sempre!»

Chiudo gli occhi, so già che cosa accadrà. La testa di mio padre vola via in un solo colpo di mannaia, mentre il suo corpo resta in piedi, ancora e ancora.

Mio padre. La sua forza nel credere. La sua fierezza di essere. La sua resistenza nel volere.

Gusto le mie lacrime, non le avevo sentite ancora.

Gli occhi di mio padre sono buoni, sono intensi; sono i miei.

«Ti aspetto, Micha…» mi sussurra. «Fa la cosa giusta… nell’amore che ti ho insegnato…»

Un secondo, due secondi, tre secondi.

L’amore che mi hai insegnato, padre, l’amore che trascende dal nostro cuore, che accoglie un popolo, che lotta per la libertà.

Mi sento ridere. Le casse sussultano. Compio una manovra dolce e torno indietro. Ho visto un punto adatto sull’isolotto, lo userò con cura. Mi lascio andare, chiudo gli occhi. Ero in credito con la fortuna; ora la fortuna mi guiderà, lo so. La natura ci impiegherà poco a inglobare il mio biplano, le radici lo avvolgeranno, l’acqua lo corroderà.

«Liberi, padre mio, ora e sempre…»

Una scintilla, un’esplosione, un velo nero. Sibili impazziti, boato, fuoco, grida di macachi.

Silenzio.

 

© Patrizia Grotta e Ljus av Balarm


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