Mi guardi. Lo so che mi stai guardando. Sento il fruscio del tuo sguardo sulla mia nuca, la mia schiena, dentro il midollo di questi frammenti di coraggio che sto tentando di raccattare.

Non posso voltarmi: questo tenero midollo – ancora troppo fragile – si sbriciolerebbe, se io incontrassi ancora una volta i tuoi occhi. Quel blu oltre mare, oltre innocenza, oltre ingenuità, oltre ogni diritto che ancora pretendi di reclamare su me, su di noi, su un te che si perde nei ripensamenti, nei tradimenti, nel chiedermi perdono nell’attimo stesso in cui sai che ancora ci ricadrai. E lo so anche io, l’ho sempre saputo, soprattutto quando pensavo – fortemente credevo e temevo – che oltre te niente altro io avrei potuto meritare. Non è buffo che sia stato un sogno a sussurrarmi ciò che le tue promesse hanno saputo sapientemente coprire ai miei sensi? Tu che per vivere i sogni li interpreti; e forse li manipoli.

«Come posso farti capire che stai sbagliando, Nina? Che stai cedendo?»

La tua voce, certo. Come ho potuto credere di immunizzarmi al tuo potere soltanto mostrandoti la schiena mentre getto la mia esistenza dentro questa rigida valigia?

Chiudo gli occhi, come se le tue parole potessero essere luci vergate nel buio della mia imminente solitudine e io potessi diventare cieca al loro fulgore.

«Non è sempre stato così fra noi? Che cosa c’è di diverso questa volta, Nina?»

Sì, tu hai sempre creduto che fosse come un patto, il nostro; una sorta di gioco in cui tu reciti i tuoi ruoli e io il mio, l’unico, di chi osserva, attende, perdona, ricostruisce. E per te, invece, ogni altro personaggio, ogni altra avventura, ogni singolo sempre uguale sorriso: sornione, seduttivo, infallibile. Cattivo.

La mano mi trema, ho il cuore in bocca, ne sento il sapore; come di sangue: rosso e caldo all’inizio – i nostri inizi – nero e gelido per ogni ferita, dopo, per ogni tradimento, per la tua immaturità.

Respiro, respiro, respiro profondamente. Sento il tuo profumo; vorrei averne la nausea, ma è ancora quell’oppiaceo su cui sedare i miei dolori.

La cerniera di questa stupida valigia si inceppa, si spezza, non vuole contenere la mia voglia di fuggire. Come te, vuole incastrarmi in una forma immodificabile; non la mia, non quella che mi avevi promesso all’inizio. Me lo avevi davvero promesso? E se fossi stata io a illudermi. A distorcere?

«Io sono qui per te, lo sai. Tu lo sai che torno sempre… Non sono sempre tornato, Nina? Non sei tu il mio rifugio? Fuori da qui, fuori da noi… tu lo sai che questa nostra vita, in questo mondo del cazzo che non ci capisce… tu lo sai che senza di me sarai sola… Lo sai, è vero?»

Me lo chiedi con il tuo tono da demone, quello che mi ha sedotto per ingabbiarmi. Ho creduto di averlo saputo in questi sei anni e di essere stata comunque fortunata, ad averti; ora mi terrorizza il dubbio che non sia stata una mia conoscenza, che sia stato tu invece a instillarmi goccia dopo goccia l’anestetico del tuo narcisismo. E lo sento il gusto di questo anestetico: risale sottile lungo la mia essenza, fino alla lingua, al cervello, alle mani che ora tremano tanto da doverle imprigionare l’una nell’altra.

Ho sbagliato a credere di lasciarti dandoti le spalle: tu sai accerchiare, sai insinuarti, sai stringermi come un cobra di finte emozioni.

«Saprai convivere con la colpa di avere rovinato tutto, Nina? Di avere infranto la nostra vita insieme? Quando ti troverai sola, non rimpiangerai questa tua scelta? Tu che non hai mai neanche saputo scegliere dal menu al ristorante…»

Spalanco gli occhi sulla visione del sogno.

Sono io, sì, con te, proprio al ristorante, quel dannato menu fra le mie mani inerti. Il cameriere al mio fianco sembra un agente penitenziario e la luce del sole dalla finestra proietta ombre di una grata sul pavimento lucido. Sudo, ho le vertigini, le parole scritte si accavallano davanti i miei occhi e fanno un’insalata tra primi, contorni, dolci e secondi. Lancio un’occhiata al menu fra le tue mani sicure, come arpioni sul raffinato cartoncino. Sbircio, come a scuola, e sono stupita nel disvelamento, perché nel tuo menu ogni parola è al suo posto, ogni ordine è chiaro, confortante. «Tu non hai il mio stesso menu!» grido con il cuore in gola.

«Tu non hai il mio stesso menu!» grido con il cuore in gola.

Mi guardi come sai fare tu, con quella sollecitudine inconsistente, e scuoti la testa per rimettermi a posto.

«Certo, signora – mi risponde il cameriere – come sempre, no? Facciamo così da quando il signore ce l’ha chiesto la prima volta. Siete d’accordo così, no?»

Siete d’accordo così. Come posso davvero esserlo stata? Quando me lo hai chiesto?

Stavo per raccontartelo il sogno, ieri mattina, come se fosse la cosa più divertente del mondo, e attendere la tua interpretazione. Non l’ho fatto e in questo istante realizzo perché: la fuggitiva non rivela al secondino il nascondiglio della lima con cui spera finalmente di tagliare le sbarre.

«Io non sono come te, ricordatelo, io non ti aspetto, Nina! Non sarò fermo ad aspettare che cambi idea e ritorni. Non sono io che ha da perdere qualcosa, e lo sai.»

Avresti voluto dirle con un altro tono queste parole, lo intuisco, con il tono sprezzante di chi possiede il mondo. Sono incredula, invece, nel cogliere la tua disperazione, come uno slancio di braccia che solleva il pesante sipario. E io ti vedo, infine, oltre il tuo narcisismo, nel tuo bisogno di me, di me con te, di te che giri in tondo perché hai me. Guardo la valigia, ne trapasso lo spessore e ci vedo dentro tutto quello che non mi serve. Mi giro finalmente, rapida, e ti vedo, colgo l’ultimo istante di quell’espressione che devi avere avuto in questa ultima ora mentre io non ti guardavo per paura. Scorgo l’istante in cui il tuo terrore si maschera di potenza. Perché sei tu, sei sempre stato tu, ad avere vitale bisogno di me. E hai punito me per la tua debolezza.

Allora, ti sorrido. Ti sorrido come tante volte tu hai sorriso a me. E tu esiti, mi scruti, le tue labbra stanno per disegnare il tuo ghigno di vittoria.

«Non preoccuparti – ti dico e sono sicura come non avrei saputo credere – non avrai nessuno da aspettare: io non sono te, Mario, me lo hai insegnato tu, no? Se adesso esco da qui, non tornerò, te lo garantisco.»

Mi guardi, forse finalmente mi vedi. Sei livido di rabbia e sorpresa. Io non so ancora vedermi, ma imparerò a farlo.

Ti guardo, tu provi a slanciarti contro di me, ma la mia mano si alza netta e ti blocca come un respiro sospeso.

«Toccami ancora una volta e ti denuncio.»

Arretri. Mi sembra di respirare il tremore delle tue mani che si serrano spasmodiche. Accenno un altro sorriso, credo di pietà. Per te, per me, per l’insano noi che siamo stati. E finalmente volto le spalle. Vado via, davvero.

Senza quella valigia, che tanto non ha mai avuto la mia forma.

 

“La valigia senza forma”, racconto di Patrizia Grotta ©ljusavbalarm 2021


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