L’attimo in cui la notte diventa giorno; ecco che cosa Isabella aveva inseguito per tutto il Pianeta, durante tutta la sua vita. Se guardava indietro alla sua storia, era certa che non ci fosse stata epoca nella sua esistenza in cui quello non fosse stato il suo pallino.

Da bambina aveva provato a riprodurre quell’attimo su migliaia di disegni, tanto da preoccupare gli insegnanti – e di conseguenza i suoi genitori – su quella sua fissazione forse autistica.

Poi aveva scoperto la passione per la scrittura e allora aveva buttato giù poesie e racconti su quel mitico passaggio, in cui aveva immaginato che accadesse qualsiasi cosa di straordinario, persino incontri con creature magiche o aliene.

In ultimo, nell’età adulta, era approdata alla sua vera attitudine, la fotografia, e allora aveva iniziato a girare il mondo, pronta nel carpire lo scatto improvviso o paziente nell’attendere la perfezione della scena. Ecco come aveva potuto vedere e fotografare davvero quasi tutto il Pianeta, inarrestabile anche quando i suoi scatti erano stati pluripremiati e definiti capolavori.

Il suo obiettivo, come lente e come scopo, non aveva però mai dimenticato la fonte originaria, la prima motivazione che l’aveva portata a lasciare casa a soli vent’anni e attraversare Europa, Asia, Africa e Oceania: l’attimo in cui la notte diventa giorno. Non lo aveva ancora trovato, in verità, ma lo aveva avuto presente in mente anche quando aveva ripreso scene di tutt’altro tipo; ogni volta che le avevano detto:

«questo è uno scatto perfetto»,

ma Isabella aveva detto a sé stessa:

«lo scatto perfetto sarà quello che mi svelerà il mio attimo».

Che tardava ad arrivare nonostante la sua tenacia nel cercarlo.

 

E ce lo aveva avuto in mente anche quella sera di vigilia dell’8 dicembre. Era tornata a casa, a Palermo, per una manciata di giorni, perché era diventata zia per la prima volta e aveva ritenuto persino criminale perdersi l’emozione di tenere in braccio la nipotina appena nata. O forse era tornata perché all’improvviso, un giorno di fine novembre, nel cuore dell’Islanda, aveva sentito una viscerale mancanza, come un bisogno di ritorno all’infanzia, una specie di richiamo ineluttabile, che le aveva fatto sconvolgere la sua agenda di lavoro ancora prima di sapere che la sua sorellina aveva deciso di entrare in travaglio due settimane prima del tempo previsto. Negli ultimi 15 anni aveva visto talmente tanto poco i suoi cari, da essere a volte arrivata a temere di poterne dimenticare il volto e quella paura le aveva tolto il respiro.

Era tornata, quindi, e tutto le era sembrato dolce e confortevole: nulla di ciò che amava spariva, anche se gli era lontana chilometri e chilometri! Eppure, quella sua terza notte lì, nella casa in cui era cresciuta, si svegliò di colpo, con un anelito che le catapultava il cuore in gola. Aveva già nostalgia degli spazi aperti e della vita nomade? No no, non doveva essere quello: era diverso, era un richiamo sì, ma un richiamo che non sembrava volerla già strappare all’amore domestico. Si alzò inquieta e prese a vagare come fantasma per la casa dei suoi genitori, immersa nel quieto silenzio della notte.

Si fermò solo quando ad attrarla furono le calde luci colorate dell’imponente albero che suo padre, come sempre, aveva allestito il giorno prima nella grande sala d’ingresso. Era una passione per suo padre, l’albero di Natale, qualcosa che andava oltre il mero piacere decorativo. Qualcosa che parlava di famiglia, di unione, di tempo per le emozioni. Quella passione di suo padre, infatti, era una delle cose più belle che ricordava della sua infanzia, quando insieme a lui e a sua sorella trascorrevano ore a scegliere, a sistemare, a rimirare gli addobbi più antichi ma anche quelli di nuovo acquisto, che suo padre scovava sapiente per mercati e antiquari. Poi era arrivata l’adolescenza con il suo carico di narcisismo e incomprensioni e suo padre era stato lasciato solo in quel rituale. Ma l’albero c’era stato sempre e c’era anche quell’anno, sempre più bello, anche adesso che suo padre era diventato nonno.

Lo ammirò come non faceva da almeno un decennio – e come avrebbe potuto, se tutti gli ultimi natali li aveva trascorsi in luoghi in cui, a volte, Natale non era neanche una festa locale? Si intenerì alla cura con cui a ogni addobbo suo padre aveva dato una collocazione precisa, mai la stessa attraverso gli anni, con una logica che da bambina aveva saputo decifrare e che invece da adolescente aveva aspramente criticato. Adesso, invece, nel cuore della notte e nella quiete della sua casa natia, le sembrava naturale e immediato indovinare la ragione di ogni scelta di suo padre: perché quella campana lì, perché quell’angelo qui, perché le luci attorno a quella sfera di cristallo. Allungò due dita a sfiorarla, curiosa e affascinata: non la ricordava, doveva essere uno degli acquisti più recenti di suo padre. La purezza del cristallo faceva da rifrangente alle luci e le moltiplicava in caleidoscopici giochi di riflessi che mutavano seguendo un disegno fantastico. Corse silenziosa in camera, in cerca della sua macchina fotografica, e la afferrò al volo per tornare al cospetto dell’albero. Scattò più di una foto, da ogni angolazione possibile, ammaliata da quei bagliori cangianti.

Quando si sentì soddisfatta, arretrò di un paio di passi, per rivedere le foto sul display della macchina. Il suo occhio allenato, però, torno alla sfera, chiamato da una percezione repentina: era come se a un tratto dalla sfera potessero levarsi, quasi evaporare fumose, molecole di luce verdi e blu, che sollevandosi sfumavano in un soffice arancione. Sgranò gli occhi, attonita, individuando il fascio di luce che entrava nella stanza attraverso la finestra del salone lasciata con la serranda aperta. Lo seguì col cuore in gola, scoprendo che era proprio la rifrazione di quel raggio a creare quelle molecole sulla sfera di cristallo.

Accaldata, corse proprio alla finestra, sguardo già al cielo che stemperava i colori scuri della notte nei primi pallori mattutini. L’emozione le ghiacciò il corpo, prima di esplodere bollente in tutto il suo sangue. Non poteva crederci, non poteva essere! Eccolo! Era quello! Ne era sicura! Eccolo lì: il momento che da anni aveva inseguito, quella mitica transizione, quella divina fusione fra elementi opposti ma limitrofi, la notte e il giorno che si incontravano in quello sfolgorante raggio di luce purissima che adesso attraversava il suo corpo, scomponendosi, ma poi si ricomponeva vaporoso e turbinoso dietro di lei per accendere la sfera di cristallo sull’albero di Natale. Sentì le lacrime agli occhi, una stupida voglia di piangere, che all’inizio le risuonò come gioia, poi divenne nostalgia. Ma nostalgia di cosa? Chiuse gli occhi per trattenere una lacrima e quando li riaprì il raggio di luce era scomparso. Costernata, realizzò di essere stata presa talmente dall’emozione che non aveva scattato neanche uno straccio di fotografia.

«Nooooo…»

Com’era stato possibile?! Come diavolo aveva potuto permettersi quella leggerezza?! Lo scopo di tutta la sua vita, la ragione dei suoi viaggi, il motore che l’aveva strappata alla sua casa, alla sua famiglia, a una vita “normale”, con un compagno da amare e dei figli, magari, da desiderare e crescere?!

Pestò i piedi con la stessa stizza di quando era bambina e fissò delusa la macchina fotografica, come se lo strumento del suo lavoro l’avesse tradita proprio nel momento clou di un’intera vita insieme! Sussultò di colpo, però, quando una mano avvolgente si poggiò sulla sua spalla destra. Si volse brusca ed esclamò stupita nel trovarsi davanti suo padre. L’uomo le sorrideva con tenerezza, tanto che Isabella ebbe l’impulso di urlargli:

“che diamine ridi, stupido?!”.

Non lo fece, però, perché gradualmente sentiva l’emozione di quella visione improvvisa, suo padre in ciabatte e pigiama, i capelli ingrigiti e qualche ruga sul viso, ma sempre dritto e alto come il suo papà dell’infanzia, capace di sollevarla più in alto di tutti e di farla volare. Allora sorrise anche lei, sebbene dimessa, e lo salutò. L’uomo le carezzò una tempia, riavviandole poi una ciocca di capelli ricaduta su un occhio. Non parlava, ma la guardava con un’espressione che a Isabella parve di puro amore. Da quanto tempo non provava quella dolcissima sensazione?

«Papà…»

Suo padre tornò a sorriderle, le prese una mano e vi poggiò sopra uno smartphone. Isabella lo guardò sorpresa, ma accettò il tacito invito del padre ad abbassare lo sguardo sullo schermo, l’attimo prima che si spegnesse. Lo riaccese e i suoi occhi, di nuovo, si sgranarono nella bellezza di ciò che vedevano: c’era lei sullo schermo, alla finestra, attraversata dalla luce al confine tra notte e giorno; i suoi lunghi capelli castani scomposti sulla schiena, i piedi nudi, il pigiama di pile rosso; le molecole ammalianti. Era lei, lo sapeva, lei pochi minuti prima, ma le parve che quella potesse essere una foto di tanti anni prima, una piccola Isabella di due anni, in piedi su una sedia per poter sbirciare fuori.

«Visto, Isa, la notte e il giorno si sono sposati…»

Il sussurro di suo padre la fece trasalire per un’improvvisa girandola di ricordi sopiti. Incredula, corse di nuovo all’albero e guardò la sfera di cristallo. Vi vide riflessa sé stessa e suo padre, ma indietro nel tempo, alla notte in cui – dopo essere stata male per settimane – suo padre l’aveva presa dal letto, con cura e protezione, e l’aveva portata a quella finestra, al cospetto di un altro albero, e le aveva raccontato di quel magico istante che avviene solo qualche volta e che, per la sua straordinarietà, ha il potere di realizzare un desiderio espresso da chi riesca a vederlo. E quella notte, insieme loro due, avevano espresso il desiderio che la piccola Isa potesse tornare a star bene e che la sua vita fosse sempre piena di luce.

Si morse le labbra, travolta dalla forte bellezza di quel ricordo; come aveva potuto dimenticarlo? Quella notte, quella sfera di cristallo, l’amore di suo padre, le sue parole tenere e amorevoli che l’avevano rianimata.

Si volse al padre, che le sorrise ancora, e si gettò fra le sue braccia, forti come allora. Era lui, quindi, l’origine della sua fissazione; era a lui che doveva ciò che aveva riempito la sua vita di esperienze magnifiche e irripetibili, a caccia di ciò che – straordinario disegno d’Altissimo – aveva infine trovato a casa. Restò in quell’abbraccio sublime tutto il tempo che volle, accolta dal suo papà, che la strinse a sé sussurrandole il più soffice dei “bentornata, bambina mia”. Poi si discostò da lui, desiderosa di guardare ancora quella foto. Sorrise al padre che si dispiaceva per le sue pessime qualità da fotografo e gli disse sincera che no, invece, era la foto più bella che mai Isabella avesse visto, la foto che aveva cercato per decenni – senza saperlo. La carezzò con dita riverenti e suo padre si chinò a baciarla fra i capelli. Lei alzò lo sguardo e lo fissò nel suo.

«Grazie…» gli disse, in un moto dell’anima che mai avrebbe dimenticato.

Suo padre assentì e il suo sorriso poté persino essere etereo. Isabella, allora, tornò ad abbracciarlo e si sentì piena. Piena dei ricordi che aveva riavuto e della luce che aveva trovato.

Il resto del mondo, con le sue straordinarie bellezze, avrebbe potuto aspettare qualche settimana!

 

Molecole di luce, un racconto di Patrizia Grotta ©2018 Ljus av Balarm


NB tutto il racconto, come ognuno degli altri messi disposizione gratuitamente dall'autrice, è tutelato dal diritto d'autore. Se ne vieta dunque qualsiasi utilizzazione, totale o parziale, ivi inclusa la memorizzazione, riproduzione, rielaborazione, distribuzione, pubblicazione, copia, trasmissione, vendita. Gli eventuali trasgressori saranno perseguiti secondo quanto stabilito con la Legge 633 del 22 aprile 1941 e successive modifiche.