Proprio quel giorno le previsioni meteo avevano visto giusto: pioggia a rovesci e vento di maestrale. Quasi una beffa, a vederla da un certo aspetto. L’ambulatorio alle sue spalle, grigio di umidità; le nuvole sulla sua testa, gonfie di cattive intenzioni; la tristezza nel suo cuore, dilagante come e più di quell’acqua piovana che cancellava le vie della cittadella ospedaliera. A ordinarla, non avrebbe avuto un’ambientazione più adeguata per quel momento. La vita gli aveva appena presentato il conto per tutti gli anni di superficiale onnipotenza in cui si era sentito al di sopra del resto dei comuni mortali. Una sfilza di valori fuori norma elencati su un foglio di carta e l’illusione di colpo si infrangeva: non di invulnerabilità si era trattato, ma solo di fortuna, casuale ed effimera fortuna, che adesso lo aveva abbandonato e lo consegnava alla Malattia.

Tradito, deluso, solo: così Michele si sentiva. E quella dannata pioggia continuava a scagliarglisi addosso, come se volesse punirlo per la sua arroganza o volesse fargli gustare un anticipo di ciò che da quel momento in poi sarebbe stata la sua vita: il sapore freddo e cupo di una solitudine intima. Lo sapeva, lo aveva visto accadere ad altri, a tutti coloro che prima di lui avevano avuto uguale sorte: gli amici rapidamente si allontanavano, i familiari latitavano, i colleghi evitavano. Non lo aveva forse fatto anche lui, qualche volta?

Chi di spada ferisce…

Sorrise a sé stesso, d’amaro sarcasmo. Stretto nelle braccia per chiudere attorno a sé l’inutile trench che lasciava trapassare pioggia e umido dalla pelle alla carne, si limitava a guardare le nuvole scure e basse e a seguire la pioggia precipitare su altra pioggia. Non gli veniva in mente nessuno da chiamare, nessuno cui comunicare i risultati delle analisi, nessuno cui chiedere una parola di conforto. Ma c’era davvero conforto dinanzi al fulmine che si infrangeva sul campo di una vita e lo sconvolgeva fino all’essenza?

La gente gli passava accanto, davanti, qualcuno gli chiedeva permesso a mezza voce per entrare o uscire dalla porta dell’ambulatorio. Si era fermato sulla soglia, il referto in tasca, e non aveva fatto neanche un altro passo, come se la pioggia fosse diventato un muro invalicabile. Qualcuno gli lanciava lunghe occhiate che scrutavano, ma la maggior parte degli occhi gli scivolava addosso senza notarlo. Lì, su quella soglia, era soltanto uno fra tanti, un valore sballato fra altri, un asterisco fra centinaia di asterischi accanto a un’anomalia consistente. Lì non era il seduttore irresistibile, il viveur grandioso, era solo un pezzo di carne dal sangue infetto.

E di nuovo sorrise caustico, quando il maestrale arruffò le folate di pioggia e gliele gettò in faccia. Ci sarebbe stato un tempo in cui sarebbero arrivate la rabbia, la paura e la disperazione, ma in quel momento riusciva soltanto a sentire la beffa, il lato ironico della situazione. Era forse l’effetto dello choc della notizia?

Sarebbe rimasto per ore su quella soglia, incapace di attraversare la pioggia, finché la gente lo avesse giudicato pazzo e avesse avuto pietà di lui? A questo voleva arrivare in quell’assurda mattina di dicembre?

Primo dicembre… Sì, era quella la data? Trasse il referto dalla tasca per verificare e lesse la conferma: 1° dicembre 2015.

Allora fu preso da una risata che non seppe né volle trattenere. Rideva e pensava a quante volte nella vita aveva giudicato patetici o ipocriti tutti quelli che in quel giorno si erano addobbati con un fiocco rosso sulla giacca ed erano andati in giro a dispensare la loro pietà per le vittime dell’Aids – probabilmente pensando segretamente che alla fin fine quella malattia colpiva chi se la cercava!

Allora sì, era davvero una beffa: ritirare proprio il primo dicembre il referto che gli confermava il sospetto di sieropositività avanzato un mese prima dal suo medico. Com’era quella parola? Ah, sì: nemesi! Si compiva la sua nemesi. Addio al seduttore libero e fascinoso, largo all’appestato! Quante persone ne sarebbero state felici? In quanti avrebbero visto in quella beffa la giusta punizione? E lui sarebbe stato capace di affrontare quello scorno, prima ancora che la decadenza del suo corpo?

Chiuse gli occhi, sentendo una lacrima pungerli. Inghiottì il nodo in gola, ma ne sentì il peso sul petto. Li riaprì in un moto d’orgoglio – che stupido! – e vide subito il ragazzo di fronte a lui, sull’altro marciapiede, in jeans e giubbotto pesante, al riparo di un grande ombrello variopinto. Colse il suo sguardo su di sé, un sorriso gentile e poi un cenno, un movimento dell’ombrello verso di lui, un invito, un’offerta. Lo fissò sorpreso, incredulo in realtà, come dinanzi a un evento alieno. Allora l’altro ripeté il gesto, questa volta più apertamente, e mosse anche un passo in sua direzione.

Io non ho bisogno di nessuno; su quell’epigrafe si era forgiato per anni.

Se la ripeté anche in quel frangente, dinanzi al sorriso genuino del giovane, ma qualcosa di diverso accadde per la prima volta nella sua vita. Fece anche lui un passo, assentendo appena, con un gesto accennato di timidezza. Subito, allora, il ragazzo attraversò la strada e lo raggiunse, fermandoglisi di fronte e offrendogli il riparo dell’ombrello.

«Serve un passaggio da qualche parte? Io sto aspettando mia sorella che esce ma ci impiegherà ancora un bel po’!»

«Io non…»

«L’ho vista stare qui a guardare la pioggia… è troppo forte per buscarsela, no? Lo so che non è una limousine, ma in certi casi anche un bell’ombrello può essere utile… Ah, se se lo sta chiedendo, non è mio, è di mia sorella… l’ombrello, intendo… Un poco sopra le righe, lo so, ma lei dice che fa allegria… e l’allegria è preziosa quando il tempo è così cupo, no?»

Michele si ritrovò a ridere, travolto da quel fiume di parole. Si scusò con l’interlocutore, che però si aprì di un grande sorriso.

«E di che? Ridere fa bene!»

Gli indicò ancora l’ombrello e Michele prese un profondo respiro, lasciando allentare i muscoli del corpo.

«Ok, sì, grazie… ho la macchina fuori, vicino ai fiorai…»

«E allora andiamo!»

Si affiancarono e insieme camminarono sotto la pioggia, in un tranquillo silenzio ritmato dalle grosse gocce sulla tela impermeabile. Raggiunsero l’auto in una decina di minuti e Michele tirò fuori le chiavi, guardando il suo accompagnatore. Fece per ringraziarlo, ma l’altro gli poggiò una mano sul braccio e il suo sguardo si addolcì per un sussurro:

«Andrà meglio… non pioverà sempre, io lo so…

Michele lo fissò stupito ed ebbe la sensazione che quel ragazzo sapesse tutto di lui. Non poteva che essere un’allucinazione, un suo desiderio.

Sorrise, nondimeno, sinceramente rinfrancato da quelle parole.

«No, infatti… non può»

«E se anche piovesse sempre, perché il mondo decide di impazzire, c’è sempre un ombrello… vedi?»

Glielo porse con uno sguardo invitante e Michele lo prese stupito. Non ebbe tempo di dire qualcosa, però, perché il giovane lo salutò e corse via, agile sotto la pioggia sferzante. Restò a guardarlo, attonito, ma poi chiuse l’ombrello variopinto per osservarlo divertito. Lentamente sentì affiorare un imprevedibile buonumore. Quell’ombrello non avrebbe potuto proteggerlo dalla sieropositività, ovviamente, ma scudo era stato, sì, contro il cinismo a cui aveva trovato facile affidarsi per qualche minuto. C’era, ne era sicuro, qualcuno che avrebbe saputo stargli accanto in quel momento! Così prese lo smartphone e cercò in rubrica il numero di sua madre, che gli rispose al terzo squillo, voce sorpresa ma felice.

Ancora i suoi occhi vedevano quel cenno di un estraneo che gli aveva dato riparo e sentiva che la vita sarebbe stata pietosa con lui e gliene avrebbe portato altri.

 

© Patrizia Grotta e Ljus av Balarm


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