Quello scoppio improvviso prende l’aria e riecheggia impietoso nella mia mente. La sua spavalderia, la sua tracotanza, l’effervescenza inadeguata, la strafottenza verso il mio stato d’animo, il mio dolore, le mie ferite.

Quante volte, anzi, ho avuto la sensazione che, nel far saltare a quel modo il tappo dalla bottiglia di vino, l’uomo che mi ha involontariamente generato nel consueto stupro di mia madre volesse esattamente festeggiare la propria crudeltà, la propria insensata ostinazione a tornare da me per ridurmi a sangue. La lama del coltello si abbatteva sul tappo di sughero, lo sparava come proiettile d’odio, le labbra tracannavano il vino e la sceneggiata di violenza prendeva vita, come marchi arroventati indelebili sulla mia pelle.

Quanti tappi inopportuni erano saltati da una dannata bottiglia a ogni suo ritorno; ogni volta che le porte del carcere si erano spalancate dietro di lui, anziché sigillarvelo dentro nell’eterno. E poi mi si chiedeva perché io avessi smesso di credere in Dio: come fai a credere in qualcuno che non ti ascolta e non ti soccorre?

Quanti tappi inopportuni erano saltati da una dannata bottiglia ogni volta che l’uomo che mi ha generato mi trascinava con sé per mostrarmi ai compari e ridere con loro della battuta di sempre. Immutabile, umiliante, sale sul mio sangue esposto:

«Le puttane ve le dovete solo scopare, accura a metterle incinte, che vi spunta ‘stu garrusu come mi spuntò a ‘mmia».

E sotto ogni scoppio di tappo, il mio pensiero prima stupito, poi disperato, finalmente arrabbiato:

lasciami in pace, fottitine di me, non mi cercare, sparisci dalla mia vita, dalla mia mente, dalla mia carne.

Quanti tappi disarmanti erano saltati da altrui bottiglie nei Capodanni del mio inferno, della mia perdizione in una fuga dal male per la caduta nel peggio?

Quanti tappi insensibili erano saltati da altrui bottiglie nei giorni del mio faticoso riscatto, della mia ritrovata tenacia di vivere, fortemente volere e riuscire?

Come posso spiegarlo agli altri, agli amici di una nuova, finalmente mia, vita? Come motivare la mia idiosincrasia a quel suono secco, corposo, che mi si avvita al cuore e lo sprofonda in una caduta vorticosa verso un’angoscia antica come le cicatrici sulle mie braccia?

Li sento alle mie spalle, tappi che inneggiano a un mio successo, a un mio traguardo, ma che bombardano sottili la mia anima. Che cosa avrei dovuto fare? Mettere un veto all’usanza più conviviale del mondo? Ordinare ai camerieri di portare lo champagne già nelle flûtes? Espormi all’incomprensione degli altri o, forse peggio, alla loro scherzosa derisione di una stramba fobia? No, non voglio che qualcosa mostri agli sguardi di oggi ciò che gli sguardi di un tempo hanno visto e di cui hanno goduto!

E allora sì, forte come sono diventato, corazzato come so essere, un sorriso smagliante a copertura dei vecchi fantasmi: così posso lasciare l’aria frizzante della sabbia e del mare e rientrare dagli ospiti festosi.

Il fruscio sulla sabbia ancora tiepida di splendide ore estive si insinua sotto il mio fondo respiro che si ritempra di salsedine. L’ombra diviene forma, di corpo e occhi. Gli occhi ai quali solo poche ore prima ho promesso la mia fedeltà e la mia devozione.

«Ehi, sei venuto fino a qui? Io sto rientrando…»

Non si ferma, mi raggiunge, si frappone tra me e il resto del mondo. Il suo è un sorriso che mai potrei trovare falso, difensivo. Me lo regala al chiarore della luna, come centinaia di altre volte ha fatto e, spero, migliaia di altre volte ancora farà. Sono così preso dai suoi occhi che fissano i miei, che solo all’ultimo mi accorgo che ha in mano una bottiglia di champagne.

«Regalami due minuti, solo per noi, qua fuori…» mi sussurra. «Sei il primo con cui stasera voglio brindare, l’unico con cui voglio farlo veramente…»

Non so dirgli di no; a lui non ho mai saputo, sin dall’inizio. L’unica persona che sia entrata da una corsia preferenziale dentro il mio nucleo blindato. E non posso neanche allontanarmi, come sempre faccio, a distanza di sicurezza da quella dannata bottiglia con il suo tappo bastardo.

«Ti va?» mi chiede seducente.

Sospiro pur se non vorrei farlo: ogni sospiro è suono di resa.

Mi sorride ancora, non aspetta la mia risposta e solleva la bottiglia pregiata. Il mio cuore è rassegnato a cadere per la millesima volta nel baratro della tachicardia mentre guardo le sue mani snelle; la destra sostiene la bottiglia, la sinistra con la fede scintillante avvolge il tappo, con cura, con sensualità. Per la prima volta in vita mia, lo confesso, vorrei essere io un tappo… Mi ha quasi distratto, per due secondi nella mia mente non c’è stato tempo per l’angoscia preparatoria all’esplosione. Incontro i suoi occhi, sembra che possano comunicare con i miei. Mi sorprendo, poi, del gesto delicato con cui la sua mano accompagna il tappo fuori dal collo, una carezza di transizione da dentro a fuori. Mi mostra il tappo e il suo sorriso ora è dolcezza. Ho il cuore in gola, ma non è angoscia: è sorpresa. Sento il suo bacio sulle mie labbra.

«Te lo giuro, amore mio, mai… mai permetterò a un tappo di ferirti… mai…»

E mi abbraccia, mi stringe come mai la vita ha fatto quando da bambino l’ho chiesto a Dio.

«Come… ma come fai a… io non ti ho mai…»

Mi azzittisco da solo, toccato dall’emozione nel luogo sicuro che finalmente mi sono guadagnato, quell’abbraccio consapevole e confortevole. Ora basta, sì, basta con la vecchia narrazione di me, con la memoria di tutti i tappi che, prepotenti, hanno lasciato una bottiglia in mio scorno. Voglio scrivere una nuova storia, sì, una storia lunga fino al mio ultimo brindisi, di tappi accarezzati e sensualmente estratti, ai quali affidare ogni mio sorriso.

E nei quali sentire ciò che oggi sono, ciò che nessuno potrà più portarmi via: un cuore da accarezzare.

 

© Patrizia Grotta e Ljus av Balarm


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